La «guerra» nella Costituzione

«Europa Socialista», a. II, n. 5, 23 marzo 1947, pp. 8-9.

LA «GUERRA» NELLA COSTITUZIONE

La formula adottata dalla Commissione dei 75 nel progetto di Costituzione, nell’art. 4 delle Disposizioni Generali a proposito dell’atteggiamento della Repubblica sul problema della guerra, può riaprire in Italia una discussione che va molto al di là di una precisazione costituzionale anche se la si può svalutare nei termini stessi di incertezza e di malessere politico in cui essa come ogni altra discussione della Costituente sorge: o in termini di miope tatticismo confinato all’anno o addirittura alla stagione politica in cui principî fondamentali si trovano ad essere discussi, o in quelli di una rapsodica visione che prescinde da ogni concreta coscienza del terreno su cui la Costituzione cresce. Ma se è, fra l’altro, giusta l’osservazione che nulla è cosí attuale quanto ciò che è profondamente ideale e che se batte il naso per terra chi guarda la luna lo batte ugualmente sul muro chi esamina con troppa cura il mattone su cui sta posando il piede, è lecito a chi scandaglia la misura e il ritmo che uniscono cronaca e storia affermare che possibilità attuali e valori finiscono per vivere davvero nella loro migliore natura solo quando elidono reciprocamente il loro margine di sogno e di miope incomprensione. E proprio il problema che si rivela nell’art. 4, esiste come esempio di questa verità ben poco peregrina, ma praticamente respinta nell’agire e nel pensare di troppi uomini astratti nella loro mania empirica, empirici nel loro ricorso alle idee generali fuori dell’organicità che le rende vere.

La rinunzia alla guerra come mezzo di conquista ed offesa della altrui sovranità rientra ormai in quegli acquisti della coscienza morale dei popoli che sono stati codificati entro un tale limite di pudore che vieta l’affermazione esplicita di metodi che viceversa lo spregiudicato realismo della politica di potenza non può in alcun modo annullare. Ossequio moralistico e velo di una nuova convenzione che indicano solo un’esclusione per ora vocabolaria della guerra come conquista ed offesa. Ma chi definisce poi l’aggressore, l’offensore, chi stabilisce la precisa natura di un’iniziativa bellica? E non occorre riferirsi agli esempi piú scandalosi e alla paesana saggezza dell’esopiano lupo ed agnello per convincersi che anche una guerra apparentemente difensiva di uno stato a base militaristica potrebbe essere il culmine di una politica di guerra e di egemonia. D’altra parte la tradizione pacifista dalle formulazioni settecentesche dell’abbé de S. Pierre e del Kant di Zum ewigen Frieden, a quelle della von Suttner e di Norman Angell, fino alle posizioni estreme di resistenza passiva gandhiana precisate in termini di manuale del nonviolento dal De Ligt Pour vaincre sans violence, comporta un atteggiamento etico-filosofico che è per ora di pochi iniziati della nonviolenza, e che non può allo stato attuale considerarsi come base realistica di una discussione che involga milioni di uomini, le cui aspirazioni devono essere espresse in una Costituzione.

Siamo allora in grado di far valere l’istanza socialista quale si venne concretando già prima dell’altra guerra nell’opera di Jaurès L’Armée nouvelle e come tra noi si presentò dopo la guerra mondiale e proprio negli anni in cui il nuovo militarismo diceva che la migliore difesa è l’offesa, nell’opera poco nota di Leonardo Gatto Boissard Guerra e difesa, Milano 1925. La tesi generale è troppo socialista perché sia necessario esporla nella sua costruzione di «si vis pacem, para pacem», ma la sua validità va chiarita agli occhi di un popolo che nella terribile condizione in cui si trova dopo una guerra perduta dovrebbe comprendere come la rinunzia alla guerra risponde ai suoi stessi interessi piú vivi, alle sue aspirazioni sociali. Ed un’affermazione solenne che un popolo vinto, ma che costruisce la sua Costituzione sui principî in nome dei quali la sua parte migliore si è liberata dall’oppressione, facesse, piú ardita delle formulazioni delle grandi potenze implicite in una politica che non è certo socialista, avrebbe il valore di mettere l’Italia sul piano piú moderno e concretamente progressista, darebbe ad essa quel solo primato cui può e deve tendere. Escludere la guerra come mezzo di soluzione dei contrasti internazionali (al di là della stessa natura contrattuale del Patto Kellogg) significherebbe in questo momento storico non una forma di pacifismo timido e utilitario, ma un’affermazione di socialismo concreto, la proposta di un tema veramente rivoluzionario, un chiaro «no» che l’Italia direbbe ad ogni blocco contrapposto, all’inserzione in qualsiasi combinazione di potenze. Un proletariato cosciente della necessità di un proprio svolgimento autonomo dovrebbe ben sentire che questo è uno dei principî della sua vita, uno dei principî su cui si possono costruire quegli Stati Socialisti d’Europa che per non essere maschera di interessi egemonici debbono assicurare praticamente tutti della loro volontà autonoma, della loro opposizione alla vecchia politica di potenze. Ebbene i rappresentanti del proletariato italiano superino il timore di non essere compresi dai residui nazionalistici e militaristici del nostro paese, si rivolgano alle forze vive del popolo e con un’affermazione nella costituzione compiano un atto di socialismo vigoroso e moderno.